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L'evoluzione degli strumenti urbanistici



Analizzare l'evoluzione diacronica degli strumenti di trasformazione e pianificazione della città non ha solo il senso di evidenziare le possibilità operative di volta in volta concesse (o negate), ma, soprattutto, di mettere in luce come gli obiettivi dell'azione urbanistica siano variati nel tempo.
Una legge urbanistica non è solo uno strumento per fare la città, ma anche un modo di intenderla.
Il forte valore ideologico degli strumenti urbanistici è nel rapporto pubblico-privato, nelle finalità degli interventi, nella gestione amministrativa dell'iter di approvazione e finanziamento…
Una legge urbanistica è un documento sociale.
Questa analisi non intende essere una ricostruzione esaustiva in termini legali o economici della produzione di disposizioni urbanistiche del dopoguerra, ma proporre una sintetica analitica dei momenti più significativi, nel tentativo di rintracciare delle direttrici generali di evoluzione della dialettica tra le istituzioni e la realtà economica e sociale della città.

Il Piano Regolatore Generale

La città è da sempre l'oggetto della maggior parte delle emanazioni legislative urbanistiche, proprio perché la complessità e la densità sociale urbana richiedono forme di controllo più precise e articolate.
L'imprenditoria privata è il motore del benessere urbano e quindi la prima responsabile dell'imporsi della città moderna.
Il ruolo dello stato è quello di porsi super partes nell'organizzazione della città, la cui crescita non può ovviamente essere affidata alle sole leggi del profitto.
Nell'attesa ultratrentennale di una nuova legge urbanistica nazionale, il Piano Regolatore Generale, definito nei suoi principi addirittura dalla legge 1150 del 1942, resta uno dei principali strumenti di pianificazione.
È uno strumento avanzato rispetto al tempo in cui è stato concepito, ma ora decisamente superato; il limite principale del PRG è quello di non contemplare gli strumenti attuativi dei propri contenuti.
La fase attuativa viene infatti demandata alla redazione di Piani Particolareggiati di Esecuzione, che devono essere redatti a discrezione dei Comuni.
Il PRG opera così scelte di orientamento dello sviluppo urbano limitando l'iniziativa privata in termini qualitativi (destinazioni d'uso) e quantitativi (coefficienti di edificabilità) senza preoccuparsi dell'effettiva realizzabilità delle opzioni.
Il rischio è quello di una programmazione "dall'alto", di un'urbanistica amministrativa slegata dalla città e dai suoi bisogni, le cui opzioni programmatiche sono spesso disattese in fase realizzativa.
In definitiva il PRG rispecchia l'idea di controllo esclusivo dello sviluppo urbano da parte dell'amministrazione, una posizione evidentemente lontana dalla realtà perché sottovaluta l'effettiva incidenza dell'investimento privato.
L'amministrazione si propone come interprete delle esigenze dell'imprenditoria, che è però di fatto estromessa dalla partecipazione diretta alla pianificazione.
Il principio della zonizzazione a cui il PRG è legato, pur contestuale al suo periodo di nascita, è oggi superato e responsabile di molte forme degenerative dell'ambiente urbano.
La zonizzazione, sia sociale che amministrativa, è strettamente legata all'idea di città organizzata in termini imprenditoriali.
La produzione industriale, e la conseguente standardizzazione sono ritenute le premesse necessarie al progresso sociale e all'evoluzione democratica della città; il piano urbanistico e il regolamento edilizio sono gli strumenti che trascrivono in termini normativi le leggi economiche della crescita urbana.
La redazione di un PRG non è obbligatoria per tutti i Comuni, ma solo per quelli compresi in appositi elenchi, inizialmente compilati a cura del Ministero dei LL.PP., oggi dalle Regioni; qualunque Comune, però, può dotarsi di un PRG.
L'adozione del PRG da parte dei Comuni è stata lenta e tormentata e ha spesso lasciato troppo spazio alla speculazione, tanto che si è reso necessario imporre, attraverso la legge 765 del 6 agosto 1967, limiti di edificazione da rispettare in assenza di PRG.
Il PRG ha validità decennale, al termine della quale deve essere sottoposto ad una revisione detta Variante Generale; il PRG è quindi concepito come uno strumento di programmazione a lungo termine a cui è garantita una certa stabilità nel tempo dalla complessità stessa dell'iter di approvazione di eventuali modifiche: ogni Variante Generale assume, di fatto, il valore di formulazione di un nuovo piano, e la sua redazione ed approvazione comportano tempi prossimi al quinquennio.
La "stabilità" del PRG si è così rivelata un pesante limite alle capacità di interpretare le esigenze di un ambiente urbano in rapida trasformazione.
Questa mancanza è sempre stata sfruttata come pretesto per aggirare il PRG, togliendo valore ai suoi contenuti e agevolando gli intenti speculativi dell'iniziativa privata.
La maggior parte delle orribili espansioni delle città italiane è, infatti, il frutto dei Piani di Ricostruzione, istituiti dal D.L. 27/10/1951, numero 1042.
Nati con valore di piano particolareggiato a valore quinquennale, ma rinnovabile con delibera comunale, resteranno in vigore grazie ad una scandalosa serie di proroghe fino al 31 dicembre 1970.
I Piani di Ricostruzione, come lo stesso nome indica, nascevano con l'obiettivo di scavalcare i lunghi tempi di attuazione della legge 1150 del 1942 nell'emergenza della ricostruzione postbellica; il loro orientamento a massicce edificazioni con alti indici di edificabilità in aree periferiche era però perfettamente congeniale alla speculazione edilizia.

Lo standard urbanistico

Nella Normativa urbanistica nazionale il controllo della qualità dell'ambiente urbano è sostanzialmente affidato all'idea di standard, e quindi alla soddisfazione di prescrizioni quantitative.
Il concetto di standard è importato dalla scuola tedesca, da sempre esplicitamente legata all'idea di città capitalistica in cui la rendita è il motore primo di crescita e formazione.
Nella cultura urbanistica tedesca lo standard ha innanzitutto valore ideologico, proponendosi l'identificazione e la sanzione dei bisogni specifici di ogni gruppo sociale, con un carattere normativo che sostituisce le prescrizioni ai fini che le hanno determinate.
Questa deterministica codifica dei bisogni si fonda sui principi della tipizzazione e della normalizzazione (cioè la formalizzazione in modelli astratti dei bisogni dell'utenza) e sottrae, di fatto, il processo pianificatorio alla partecipazione della comunità, mettendolo esclusivamente nelle mani degli attori tecnici ed amministrativi.
Lo standard dovrebbe essere invece un parametro urbanistico con cui valutare la risposta di un servizio alle esigenze esplicitate dalla popolazione.
Non solo un parametro quantitativo da applicare in sede progettuale, ma anche un riferimento con cui verificare l'effettiva qualità dell'insediamento nel corso della sua vita, parametri di autovalutazione dell'intervento.
La prima legge urbanistica del 1942 non contempla l'idea di standard, ma ha nella zonizzazione il principio pianificatorio.
La disciplina urbanistica era ancora delegata al Comune e mancano nella legge dei principi uniformanti.
Sebbene il concetto di standard urbanistico non entri nella legislazione italiana fino al 1968, dal dopoguerra prende corpo un impegno di ricerca per la definizione della relazione tra le attrezzature di servizio e la città, allo scopo di superare l'indeterminatezza della legge urbanistica; ne risulta un'estesa produzione manualistica, volta principalmente a risolvere i problemi della pratica professionale con soluzioni tecniche piuttosto aggiornate rispetto alla corrente cultura urbanistica internazionale, ma basata su un'idea di città in cui la rendita fondiaria urbana e la localizzazione delle aree industriali sono ancora riconosciute come l'elemento determinante del tessuto urbano.
L'indefinitezza più disorientante rimane comunque il carattere precipuo della normativa urbanistica precedente il 1968; è interessante analizzare a tal proposito la normativa INA casa, orientata a regolamentare parti di città realizzate effettivamente dall'operatore pubblico e finalizzate ad avere una dimensione minima tale da garantirne l'autosufficienza funzionale, mentre la produzione manualistica coeva non si riferiva ad un modello di città esplicitato, proponendo soluzioni generali senza un preciso contesto economico, spaziale e sociale.
Gli interventi INA, almeno nelle intenzioni, hanno la prerogativa di essere indipendenti dalla logica del mercato delle aree urbane, poiché riguardano l'organizzazione di aree sottratte al regime privatistico.
La definizione di standard per le realizzazioni INA parte dall'idea di quartiere autosufficiente, dedotta dall'esperienza anglosassone e nordamericana dell'unità di vicinato; l'autosufficienza deriva non dalla completezza delle funzioni urbane presenti, ma essenzialmente dalla dotazione di servizi.
È evidente lo stretto legame con la zonizzazione, con il principio di una fruizione puramente strumentale della città.
Il carattere sociale, vivo della città è ignorato.
La dimensione minima del quartiere è identificata in 10,000 abitanti, unità demografica necessaria per l'impianto di alcuni livelli di servizio, e presupposto per una forma ottimale di regime di autosufficienza.
La quantificazione degli standard è effettuata con grande sforzo di completezza, sia per quanto riguarda i tipi di servizi necessari alle varie scale di intervento, che per la definizione del maggior numero possibile di caratteristiche.
L'unità abitativa è il centro della programmazione urbanistica, riferimento per la dislocazione territoriale di tutti i servizi, ed è strutturata in forme aggregative che rendano conveniente la centralizzazione dei servizi tecnologici e l'associazione dei servizi sociali, così da creare le condizioni per lo sviluppo di una "comunità di vicinato".
L'isolamento dalla città degli interventi di edilizia sovvenzionata rispecchia l'atteggiamento più generale dell'intervento statale, impegnato in una donchisciottesca battaglia contro le regole del mercato privato, nell'impossibilità di controllarlo efficacemente e nell'incapacità di instaurare una dialettica costruttiva.
La presunta autosufficienza di questi quartieri è spesso la radice della loro emarginazione dalla città, anche se in molti insediamenti INA si sviluppa effettivamente un forte spirito di vicinato tra i residenti, agevolato anche dalla scelta di tipologie residenziali che enfatizzano la possibilità di rapporti diretti, come le case di ringhiera.
L'attività normativa e di definizione di standard attuata dal Ministero dei LL.PP. fino al 1968, comunque, consiste essenzialmente in tre Circolari Ministeriali (C.M. 27 settembre 1963 n. 4555, C.M. 29 settembre 1964 n. 3930 e C.M. gennaio 1967 n. 425) le cui indicazioni riguardano sempre l'interlocutore pubblico, regolamentando principalmente i piani PEEP, trascurando l'edilizia privata e non verificano l'effettiva produzione dei servizi di cui sono fissate le caratteristiche quantitative.
È interessante notare come, in contrasto con la prassi di progettazione INA, il Ministero rifiuti il criterio del quartiere residenziale autosufficiente, chiuso e isolato, anche visivamente, nei confronti del circostante tessuto urbano (C.M. 425).
Il documento più significativo rispetto agli standard urbanistici è certamente la Legge 765 del 6 agosto 1967, che prevede l'identificazione delle zone territoriali omogenee cui riferire gli standard relativi ai rapporti massimi tra spazi ad uso residenziale, attività produttive e servizi e ai vincoli fisici caratteristici degli interventi edilizi.
Il concetto di zona territoriale omogenea è evidentemente legato al principio della zonizzazione funzionale che è alla base del PRG, così come definito dalla legge del 1942.
Lo standard è forzatamente l'esito di soluzioni compromissorie tra le parti sociali, premessa necessaria per una reale applicabilità nel contesto urbano.
Le parti economicamente deboli hanno un ruolo secondario in questo confronto e lo standard è inevitabilmente una soluzione di scarsa portata in termini di rinnovamento sociale.
Le indicazioni quantitative derivano da esperienze urbane concrete (lo standard per il verde urbano, ad esempio, deriva dal PRGC di Roma per le zone di nuovo impianto) e ciò comporta l'adozione di un modello urbano di riferimento, scelta estremamente complessa in un contesto ad alta specificità locale come quello italiano: molte regioni hanno infatti corretto le indicazioni quantitative della legge nazionale con la promulgazione di Leggi Regionali.
Il principio dello standard presuppone quindi un'azione statale fortemente autoritativa e centralistica; lo standard offre parametri prestazionali che sarebbero il risultato dell'identificazione dei bisogni del cittadino da parte dello stato, una normazione che presuppone una "normalità".

Nuove tendenze urbanistiche: i piani complessi

Il PRG aveva nel Piano Particolareggiato e nel Piano di Recupero gli strumenti che sovrintendevano la fase attuativa; entrambi avevano trovato limitata applicazione per il carattere autoritativo e di sostanziale indifferenza ai bisogni dell'investimento privato.
La nuova generazione di piani complessi ha i suoi prodromi nella produzione legislativa regionale che, dalla seconda metà degli anni '80, trasforma il sistema di distribuzione dei finanziamenti da una programmazione finanziaria a una per progetti.
La delibera del CER del 5 novembre 1987 e quella del CIPE del 27 ottobre 1988 confermano in ambito nazionale la nuova tendenza a forme di interventi di recupero e riqualificazione edilizia ed urbanistica in cui concorra anche il finanziamento privato.
Il problema del recupero assume un ruolo centrale in seguito alla contrazione della crescita urbana e della necessità di riqualificazione di aree produttive dismesse risultanti dal progressivo allontanamento delle fabbriche dalle città.
Queste nuove modalità di intervento si affiancano al PRG per renderlo più flessibile, ma in alcuni casi si configurano già dall'inizio come strumenti autonomi di pianificazione (è il caso delle leggi di Liguria e Lombardia, in cui i progetti approvati hanno la valenza di variante automatica al piano).
Il presupposto della loro istituzione è infatti quello dell'urgenza e della pubblica utilità dell'intervento, ma appare evidente la difficile coesistenza di questi nuovi strumenti rapidi ed efficaci che si configurano sostanzialmente come possibilità di deroga al PRG, riducendone ulteriormente la credibilità.
I principi seguiti sono quindi quelli dello snellimento procedurale, della concentrazione del finanziamento statale e della sua integrazione da parte di agenti privati.
La maggiore aderenza di questi strumenti alla realtà urbana è confermata dalla richiesta di dettagliati piani finanziari per la realizzabilità del progetto.
La prima introduzione dei piani complessi a livello nazionale è ancora legata all'idea di emergenza dell'intervento: avviene infatti nell'ambito della Legge Nazionale 203/1991 relativa ai provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa.
Questa legge comprende un programma straordinario di edilizia residenziale rivolto alla creazione di alloggi per dipendenti statali in zone di forte presenza criminale (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) o tensione abitativa (Milano, Roma).
Come era accaduto per le leggi regionali, anche in questo caso l'oggetto di intervento è ancora quello della residenza (che deve essere però compresa tra il 30 e il 60% dell'intervento, ed è espressamente richiesta la compresenza di destinazioni d'uso diverse), ma le potenzialità urbanistiche di questo nuovo strumento di azione sono già chiaramente intuibili: i progetti promossi infatti fanno ricorso all'articolo 51 della legge 1865/1971, per cui la delibera comunale di adozione del programma equivale a variante degli strumenti urbanistici in vigore.
L'eccessiva richieste di deroghe ai PRG e il ruolo marginale dei Comuni nell'approvazione degli interventi, che si vedevano modificare il territorio in contrasto alle previsioni di piano, hanno ritardato enormemente la messa in opera degli interventi: delle 1123 proposte solo 72 hanno ottenuto l'approvazione, ma, a 9 anni di distanza, solo 2 cantieri risultano effettivamente aperti.
Resta comunque significativa la ricerca della partnership privata, che deve contribuire con risorse comprese tra il 100 e il 300% del finanziamento pubblico; nonostante il forte impegno richiesto, la risposta privata è molto ampia e testimonia il carente confronto del PRG con le realtà economiche locali.
Un piano urbanistico non deve essere il risultato di una mera negoziazione con il capitale, ma non può prescindere dal confronto con gli attori che hanno le risorse economiche per intervenire sulla città, perché rischia di essere solo uno schema prescrittivo privo di realizzabilità e, vista la pachidermica lentezza del PRG, quasi un intralcio allo sviluppo urbano.
Il confronto con le esigenze dell'imprenditoria si è sempre verificato, ma in forme occulte e non codificate, quindi a maggior rischio di compromessi con intenti speculatori, e comunque in una condizione di scarsa possibilità di controllo.
La formula dell'intervento di recupero per progetti con partecipazione del finanziamento privato diviene strumento urbanistico ordinario con la legge Botta Ferrarini n. 179/1992, che, all'articolo 16, istituisce i Programmi Integrati di Intervento, volti al recupero del patrimonio edilizio e alla riqualificazione urbana e ambientale.
L'istituzione dei P.I. coincide con un'ulteriore acquisizione di autonomia da parte delle regioni in materia urbanistica: sono infatti le Regioni a disporre dei fondi CER per la programmazione dell'edilizia pubblica e a decidere le parti da destinare ai P.I. o ai tradizionali programmi di edilizia sovvenzionata o agevolata.
Nella formulazione di disposizioni regionali che regolamentino le nuove competenze assunte delle Regioni, non si giunge ad un articolato comune e così ogni Regione adotta un modello proprio.
L'incidenza dei PI nella programmazione regionale sarà quindi strettamente legata a fattori locali.
L'intervento della Corte Costituzionale riduce l'indipendenza dei P.I. dalle prescrizioni del PRG: viene revocata la possibilità di deroga ai limiti di densità fondiaria; l'approvazione del progetto da parte del Consiglio Comunale non è più sufficiente per l'ottenimento della concessione, ma sono richieste verifiche di compatibilità con le prescrizioni degli strumenti vigenti (rallentando l'iter di approvazione); è negata la priorità di finanziamento ai Comuni che propongono P.I. (nessuna promozione all'uso del nuovo strumento).
Ciò non riduce la portata dei PI come modello di intervento: le norme che lo regolamentano sono applicabili anche a piani privi di partecipazione statale, estendendo la validità di questa formula oltre l'ambito di origine della programmazione dell'edilizia residenziale pubblica.
La Regione Piemonte, ad esempio candida il P.I. come strumento attuativo unico, capace di riunire tutti gli strumenti esecutivi.
La programmazione quadriennale 1992-95 dell'edilizia pubblica vede poi l'introduzione di due nuovi strumenti sperimentali: i Programmi di Recupero Urbano, istituiti con la legge 493/1993 e i Programmi di Riqualificazione Urbana, legge 179/1992.
I PREU spostano l'oggetto di azione dal centro alle aree periferiche, con particolare attenzione al recupero infrastrutturale: l'obiettivo dichiarato è infatti quello di un insieme sistematico di opere finalizzate alla realizzazione, alla manutenzione e all'ammodernamento delle urbanizzazioni primarie e secondarie, all'edificazione di completamento e di integrazione dei complessi urbanistici esistenti, nonché all'inserimento di elementi di arredo urbano, alla manutenzione ordinaria e straordinaria, al restauro e alla ristrutturazione degli edifici.
L'intervento sulla periferia non otterrà però l'effetto di frenarne la crescita.
Proseguendo la tendenza alla decentralizzazione del controllo dell'azione urbanistica, nei PREU il Comune ricopre un ruolo fondamentale, non limitandosi a dirigere l'iter di promozione-selezione-approvazione delle proposte, ma avendo anche la facoltà di decidere in partenza le aree di intervento e formulare un programma preliminare che definisca gli interventi pubblici necessari e quelli privati ammissibili.
La qualità del progetto urbanistico diviene, accanto alla fattibilità economica, un'effettiva discriminante di valutazione delle proposte; i bandi comunali specificano infatti indicazioni di progettazione e i programmi preliminari hanno schede-progetto relative agli ambiti territoriali di rilievo, grazie anche alla possibilità offerta ai Comuni di scorporare dai contributi straordinari le spese di pre-progettazione per un massimo di 50 milioni.
Il PREU diviene quindi promotore di una nuova immagine della qualità urbana, legata sostanzialmente a parametri di compatibilità ecologica, identità dell'intervento (continuità con gli intorni urbani, valorizzazione delle preesistenze, compatibilità delle scelte tipologco-architettoniche, articolazione delle destinazioni d'uso…), qualità dell'infrastrutturazione (gerarchia dei percorsi, dotazione di parcheggi…).
Anche l'aspetto sociale viene riconosciuto e valutato, ma soprattutto in termini di urgenza dell'intervento: il livello di tensione sociale riscontrabile nell'area di intervento è infatti una discriminante nell'attribuzione di priorità al programma.
Il concetto di degrado sociale è poi strettamente legato al problema occupazionale: gli indicatori di malessere sociale identificati sono quelli della carenza infrastrutturale e di dotazione di servizi, dell'abbandono dei nuclei storici (divenuti improduttivi) e delle aree di produzione o terziario (per cui si cerca il rilancio attraverso la riconversione economica).
Anche se l'emarginazione è avvertita innanzitutto come distanza dai flussi di capitale, è comunque da segnalare l'intento di coinvolgere direttamente gli abitanti nella definizione dei programmi e nella loro attuazione, rendendoli parte attiva del processo di riqualificazione.
Il limite maggiore dei PREU resta comunque quello di riproporre una logica di intervento urbanistico con finanziamenti statali ancora dipendente dalla presenza di patrimonio edilizio pubblico.
I Piani di Riqualificazione Urbana, invece, superano in buona parte questa limitazione, proponendosi come nuovo modello di crescita della città, portando l'obiettivo dell'intervento dal recupero alla riqualificazione.
La disgiunzione tra residenza e servizi era stata creata dalle leggi 865/1971 e 457/1978 che avevano istituito procedure e canali di finanziamento separati per le due funzioni; molti piani nascevano con carenze infrastrutturali per la lentezza e la difficoltà di ottenimento dei fondi riservati all'urbanizzazione.
La possibilità di intervento congiunto residenza-servizi era però già presente nella legge 60/1963 che prevedeva finanziamenti destinati alla casa e alle relative attrezzature per un vivere civile.
L'azione dei PRU è finalizzata ad interventi di particolare rilevanza e specificità, ma avviene secondo principi riferibili anche ad una scala più ampia, fino a divenire le direttrici per la riformulazione di un assetto generale.
L'iter procedurale di questi programmi vede la collaborazione diretta tra Stato e Comune; gli obiettivi di azione vengono selezionati centralmente su proposta comunale.
I PRU hanno portato all'avviamento di progetti per 9140 miliardi (di cui 561 sono la quota del finanziamento statale), divenendo lo strumento con i maggiori esiti in termini di interventi dal PRG del 1942.
La forte incidenza dell'investimento privato deriva dall'obbligatorietà della sua presenza per l'approvazione dei progetti, ma soprattutto dalla concezione del progetto come base negoziale tra gli interessi privati e l'amministrazione pubblica, grazie alla flessibilità delle norme attuative del PRU.
Parte dei risultati è però stata inficiata dalla lentezza procedurale di questi strumenti (anche per le carenze strutturali delle strutture comunali, spesso inadeguate alla gestione di queste nuove funzioni), incompatibile con le esigenze di rapidità operativa dell'investimento privato.
L'evoluzione diretta dei PRU sono i Programmi di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile del Territorio, finalizzati alla realizzazione, adeguamento e completamento delle attrezzature di livello territoriale ed urbano con l'obiettivo dell'aumento del benessere collettivo attraverso la promozione di forme di sviluppo "sostenibili" in termini ambientali, economici e sociali.
La connotazione è quindi marcatamente economica e occupazionale, anche per lo specifico obiettivo del miglioramento della dotazione infrastrutturale per il sostegno delle strutture produttive e commerciali.
Il coinvolgimento della dimensione privata è fondamentale per finalità di questo tipo e i PRUSST prevedono infatti specifiche garanzie di rispetto dei tempi di attuazione e lo snellimento delle procedure di valutazione (grazie a criteri di selezione chiaramente determinati) e attuazione dei progetti (ricorso all'esproprio anche per aree non destinate ad opere pubbliche, grazie al riconoscimento della "pubblica utilità" all'intero progetto approvato).

Dai Piani Integrati ai PRUSST: l'urbanistica dell'emergenza

L'azione urbanistica si è evoluta da forme autoritative verso modalità consensuali a partecipazione allargata; questa tendenza è motivata innanzitutto dalla progressiva rarefazione dei fondi disponibili nelle casse statali.
Per lo stesso motivo si passa a una politica di finanziamento per progetti, in cui il parametro della fattibilità e, successivamente, quello della rapidità esecutiva, divengono determinanti.
Gli strumenti urbanistici hanno migliorato la loro efficienza di generazione in generazione.
Quello che però sembra non cambiare è il principio dell'urbanistica legata all'intervento in condizioni di urgenza.
Prima è stata la ricostruzione, poi l'urgenza di alloggi nelle città in espansione e ora è il problema del degrado urbano e dell'occupazione: l'urbanistica italiana affronta emergenze da più di mezzo secolo.
Le città sono il frutto di queste azioni "in prima linea", che certo avranno risolto problemi al momento della loro attuazione, ma che ora sono motivo dei nuovi allarmi.
Il problema, però, non è tanto quello di dovere continuamente affrontare urgenze dirompenti, ma quello di avere fatto degli strumenti di emergenza gli unici strumenti in grado di intervenire con una qualche efficacia sulla città.
Il PRG è nato sessant'anni fa e, da allora, non si fa altro che cercare di aggirarlo o, per meglio dire, "flessibilizzarlo".
Il PRG è ora certamente superato nei suoi principi, ma il suo vero limite operativo è quello dell'irreale lentezza procedurale, che ha finito per renderlo uno strumento di scarso valore.
Il ruolo del PRG è però sostanziale in una corretta pianificazione; è la differenza che intercorre tra guidare affidandosi alla segnaletica e essere provvisti di una carta stradale.
La città non può crescere sulla spinta di interventi unicamente legati al breve periodo, all'urgenza, occorre un piano più generale di sviluppo, che però non può avere la bidimensionalità delle campiture di un PRG.
I piani complessi, le politiche quadriennali per l'edilizia hanno riscosso vasto consenso per il forte impatto promozionale nell'intervento sulla città, ma rischiano un'urbanistica legata alla formula del bando, in cui si progetta in direzione dell'ottenimento di un finanziamento.
Credo invece che nell'azione urbanistica debbano convivere una dimensione di pianificazione generale a lungo termine, ma non per questo statica e chiusa alle modifiche come il PRG, e una di azione, che deve certamente seguire la logica del partenariato e del progetto negoziato.
La strumentazione pianificatoria dovrebbe poi essere inserita in un quadro territoriale più ampio che tenga conto anche delle prospettive di sviluppo delle grandi infrastrutturazioni (strade, ferrovie…).
Un nuovo PRG dovrebbe abbandonare la rigidità degli attuali schemi prescrittivi per divenire uno strumento in continua evoluzione e legato al monitoraggio delle dinamiche urbane, con una nuova dimensione del degrado urbano legata a parametri come traffico, inquinamento, criminalità, invecchiamento della popolazione…
I principi di sviluppo di questo piano dovrebbero divenire le linee guida degli interventi attuativi, mentre il valore di "immagine delle trasformazioni urbane" che uno strumento di questo tipo avrebbe potrebbe già portare alla formulazione di pre-progetti di intervento sulla base dei quali aprire la negoziazione con i cofinanziatori dell'intervento e anche con la popolazione interessata.


La crisi del modello urbano: la città chiusa
La città per pochi Centro storico e periferia: l'identità urbana
L'imminenza del pericolo: il panico urbano Il recupero sociale della città



Si può fare urbanistica sociale?
Introduzione L'evoluzione degli
strumenti urbanistici
Uno strumento per l'urbanistica sociale



Un contratto di quartiere respinto: la storia del "Garibaldi 2"
Introduzione Garibaldi 2: un caso unico di disagio in Emilia Romagna
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TAVOLA DELLO STATO DI FATTO DELL'IMMOBILE (circa 800 K) TAVOLE IN SCALA DEL PROGETTO DI CONTRATTO DI QUARTIERE (circa 600 k)



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